lunedì 18 luglio 2011

IL RECUPERO DEGLI INDEBITI PENSIONISTICI

La domanda che mi è stata formulata spesso in questo periodo riguarda proprio la legittimità dell’ente previdenziale di recuperare delle somme  erogate  e, secondo, l’ente non dovute.
Non mi dilungo sulle considerazioni, giuste o sbagliate, che il pensionato è normalmente solito formulare, ma mi sembra il caso di chiarire questa annosa controversia.
Nel corso degli anni si sono volute emanare delle leggi che potessero sanare il recupero di somme indebitamente erogate, che ai sensi dell’art. 2033 c.c. si ha il diritto di recuperare.
La disciplina applicabile è piuttosto ingarbugliata, ma possiamo sintetizzarla come segue:

PER GLI INDEBITI ANTERIORI ALL'1.1.2001
Si applica l’art. 52 della legge n. 88 del 1989, secondo il quale per le somme pagate dal 28 marzo 1989 al 30 dicembre 1991  in caso di errore, l'ente erogatore non può pretendere la restituzione degli importi di pensione già erogati, in assenza beninteso di dolo da parte dell'interessato.
Nega tuttavia la presenza di errori a carico dell’ente nei casi in cui  la rettifica fosse la conseguenza  "di una modificazione intervenuta nel tempo". Con tale espressione si faceva riferimento, ad esempio, ai necessari provvedimenti di modifica conseguenti all'emanazione di nuove disposizioni legislative.
La norma è più vantaggiosa per il pensionato che può godere della sanatoria senza alcun limite di tempo e per qualsiasi tipo di errore.
Per cui la sanatoria risulta applicabile in caso di errore dell’Istituto –di fatto, di diritto, di misura-; se non vi è  il dolo dell’interessato ed in caso di  ritardo della comunicazione dell’errore oltre i termini previsti dalla legge 241/90.
Se l’indebito è dovuto ad una mancata o ritardata comunicazione dell’interessato ad esempio di variazione reddituale, l’ente può recuperare sempre le somme erogate prima della comunicazione, mentre per i periodi successivi ala comunicazione solo se la notifica dell’indebito avviene nei termini di legge.                                              
L’art 1 della legge n.662 del 1996 interviene sulle prestazioni previdenziali indebitamente percepite per i periodi anteriori al 1° gennaio 1996.
In questo caso non si fa alcun riferimento al concetto di errore dell’ente, si mantiene la necessaria mancanza del dolo dell’interessato, ma si fa leva sul reddito personale imponibile ai fini Irpef dello stesso.
Per cui per redditi pari o inferiori a 16 milioni non si procede ad alcun recupero; per redditi superiori a 16 milioni si procede alla riduzione del debito del 25%.
Con sentenza n. 2333/97 la Corte di Cassazione ha affermato il principio che la disciplina dettata dalla l. 662/1996 sostituisce tutta la normativa previgente per le prestazioni erogate fino al 31.12.1995 .

GLI INDEBITI SUCCESSIVI AL 31.12.2000

Il comma 1 dell’ articolo 13 della l. 412/91 consente, inoltre, il recupero dei pagamenti indebiti determinati dall’omessa o incompleta segnalazione, da parte dell’interessato, di fatti intervenuti dopo il provvedimento definitivo di liquidazione o di riliquidazione diversi dalle situazioni reddituali  che incidono sul diritto o sulla misura della pensione.

Tuttavia è possibile l’intervento della sanatoria quando trattasi si  indebiti erogati in conseguenza di una mancata o errata valutazione di fatti sopravvenuti al provvedimento di prima liquidazione o di riliquidazione diversi dalle situazioni reddituali e conosciuti dall’Istituto.

Se  i fatti sopravvenuti, diversi dalle situazioni reddituali, debbano essere dichiarati dall’interessato, le somme indebitamente erogate fino alla data di comunicazione da parte dell’interessato devono essere recuperate in ogni caso.
Non sono  più recuperabili le somme indebite erogate successivamente alla predetta comunicazione.
Nel caso in cui sussistano le condizioni per la ripetibilità da parte dell’Istituto delle somme indebitamente erogate, il relativo diritto di credito soggiace al termine ordinario di prescrizione decennale sia che si tratti di prestazioni pensionistiche che non pensionistiche.
I termini di prescrizione del credito decorrono dalla data in cui è stato effettuato il pagamento indebito; qualora l’indebito sia da ricollegare a situazioni che devono essere comunicate dall’interessato, il termine di prescrizione decorre dalla data della comunicazione stessa.
Una modalità di recupero delle somme indebitamente erogate è rappresentata dalla trattenuta sulla prestazione pensionistica e può essere operata su tutte le prestazioni pensionistiche di cui il debitore è titolare al momento della notifica dell’indebito. L'importo a recupero va eventualmente rideterminato se diventa titolare di altre prestazioni pensionistiche. 
L'art. 13 della l. 412/1991, nel fissare i presupposti per il recupero degli indebiti pensionistici non oggetto di sanatoria, non stabilisce particolari modalità in base alle quali deve avvenire il recupero.
Pertanto, in materia, trovano applicazione esclusivamente le disposizioni di cui all’ art. 69 della l. 153/1969 e successive modifiche:
  • l’ammontare delle trattenute sulle prestazioni pensionistiche deve essere limitato ad un quinto dell’importo della prestazione  medesima (comma 1);
  • il recupero sulle prestazioni pensionistiche a carico dell’AGO, deve far salvo in ogni caso l’importo corrispondente al trattamento minimo (comma 2);
  • le somme da recuperare non possono essere gravate da interessi salvo che l’indebita percezione sia dovuta a dolo dell’interessato (comma 3).
Nel caso in cui il debitore sia titolare di più trattamenti pensionistici la trattenuta di un quinto deve essere operata su ciascun trattamento, fermo restando il limite del trattamento minimo, che deve essere salvaguardato sul totale delle prestazioni.
Un cenno meritano gli indebiti relativi agli invalidi civili.
Ai sensi dell’ art. 42, comma 5, del  d.l. 269/2003, convertito con modificazioni nella l. 326/2003 non si procede alla ripetizione delle somme  indebitamente percepite prima del 2 ottobre 2003 a titolo di provvidenze economiche a invalidi civili nei confronti di quei soggetti risultati, a seguito di verifica, privi del requisito reddituale richiesto per l'erogazione della prestazione.


Per i titolari di invalidità civile - sottoposti a visita di verifica straordinaria e per i quali sia stata accertata l'insussistenza dei requisiti sanitari - la revoca dei benefici assistenziali in godimento opera i suoi effetti dal mese successivo alla data della visita.
La mancata immediata sospensione delle prestazioni, con conseguente formazione dell'indebito, non implica quindi che la revoca operi da data successiva a quella della visita né tantomeno dalla data di comunicazione della revoca: devono essere restituiti tutti i ratei maturati dopo la visita di verifica (sentenze Cassazione Sezione Lavoro 14212/01, 6091/02, 14590/02, 12759/03).



Maltrattamenti in famiglia art 572 cp e l’interpretazione della cassazione Penale sez. IV del 02.07.2010 n. 25138

L’art. 572 del codice penale  così dispone: “ Chiunque,fuori dai casi indicati nell’articolo precedente, maltratta una persona della famiglia, o un minore degli anni 14, o una persona sottoposta alla sua autorità, o a lui affidata per ragioni di educazione, istruzione, cura, vigilanza, o custodia, o per l’esercizio di una professione o di un’arte, è punito con la reclusione da uno a cinque anni.
Se dal fatto deriva una lesione personale grave, si applica la reclusione  da quattro ad otto anni; se ne deriva una lesione gravissima, la reclusione da sette a quindici anni; se ne deriva la morte, la reclusione da dodici a venti anni”.
Già dall’incipit dell’articolo –chiunque-  si evidenzia che si fa riferimento ad ogni soggetto senza distinzione di sesso, circoscrivendolo al nucleo familiare –una persona della famiglia- o all’esistenza di una relazione di autorità.
Il punto centrale dell’articolo sta nell’interpretazione del verbo “maltratta”; dalle specificazioni del secondo comma che qualifica la lesione personale come grave, o gravissima o addirittura una lesione che cagiona la morte, si evidenzia che il maltrattamento deve comunque cagionare una qualsiasi lesione personale, a questo punto da intendersi anche come lieve.
Importante, è , anche definire il concetto di lesione personale, come qualsiasi azione od omissione che cagioni un danno alla persona, sia  esso di natura fisica che di natura psichica.
E’ d’uopo chiedersi quali sono i limiti estensivi e restrittivi di questa norma, che  nella sua formulazione potrebbe essere un cilindro pieno di conigli.
Difatti chiediamoci se può uno schiaffo configurarsi come un maltrattamento.
Se facciamo leva sul dettato normativo potremmo rispondere anche positivamente e configurare il reato de quo , laddove lo schiaffo cagioni un danno fisico anche lieve .
Ma di fatto non è così, in quanto il concetto di maltrattamento rilevante penalmente deve configurarsi come la componente di un’abituale condotta vessatoria.
Alla luce di quanto detto cerchiamo di capire l’interpretazione dell’art. 572 cp  così come formulata dalla Cassazione Penale nella sentenza del 02.07.2010 n. 25138 che sicuramente è criticabile.
La Cassazione afferma: “ Le vessazioni e le percosse del marito non consistono in maltrattamenti  penalmente rilevanti  se la donna ha un carattere forte, cioè se la donna non è intimorita dalla condotta dell’uomo”.
In tal modo la Cassazione intende evidenziare che se vi è una relazione basata su maltrattamenti in rapporto di reciprocità, se pur con diverso peso e gravità, come è la natura delle cose, non può configurarsi l’ipotesi di reato, in quanto non vi è sopraffazione di una parte sull’altra.
Se in questo caso la donna è sì più forte psicologicamente  e –forse  anche fisicamente- da rispondere al maltrattamento  con gli stessi mezzi non vi è reato.
Permettetemi di dissentire, sull’interpretazione data dall’Ecc.ma Corte, ma mi sembra una lettura del film comico “Brutti, Sporchi e cattivi”.
E’ evidente che il maltrattamento  non può configurarsi solo nell’ipotesi in cui il soggetto passivo si limiti a non reagire o per incapacità fisica o psichica; il maltrattamento deve sussistere ogni volta che si rechi una lesione  vessatoria anche se vi è stata una idonea reazione .
E’ questo che deve essere valutato , se il modus faciendi  del nucleo familiare è sempre stato  basato su reciproche aggressioni, come unico mezzo comunicativo; o se le reciproche aggressioni sono frutto di una reazione a continui atti vessatori .
Non può limitarsi la configurazione del reato solo davanti ad una donna o uomo remissivo, e negarlo davanti a chi difende la propria persona da lesioni che potrebbero configurarsi di estrema gravità.



L’ordinanza di rilascio ex art. 186 quater cpc


L’art. 186 quater cpc già dalla sua prima elaborazione lasciava dei dubbi interpretativi ed applicativi tali da essere oggetto nel 2005 di una riforma la cui primaria   intenzione era quella di semplificarne l’applicazione, ma che di fatto ne ha reiterato la sua incomprensione.
Leggiamo l’articolo riformato: “Esaurita l'istruzione, il giudice istruttore, su istanza della parte che ha proposto domanda di condanna al pagamento di somme ovvero alla consegna, o al rilascio di beni, può disporre con ordinanza il pagamento, ovvero la consegna o il rilascio, nei limiti per cui ritiene già raggiunta la prova. Con l'ordinanza il giudice provvede sulle spese processuali.
L'ordinanza è titolo esecutivo. Essa è revocabile con la sentenza che definisce il giudizio.
Se, dopo la pronuncia dell'ordinanza, il processo si estingue, l'ordinanza acquista l'efficacia della sentenza impugnabile sull'oggetto dell'istanza.
L'ordinanza acquista l'efficacia della sentenza impugnabile sull'oggetto dell'istanza se la parte intimata non manifesta entro trenta giorni dalla sua pronuncia in udienza o dalla comunicazione, con ricorso notificato all'altra parte e depositato in cancelleria, la volontà che sia pronunciata la sentenza. “
Lo scopo principale dell’art. 186 quater c.p.c. è quello di consentire una più rapida realizzazione della pretesa fatta valere dalla parte che ritiene di aver ragione.
Poiché l’ordinanza è succintamente motivata, ai sensi dell’art. 134 c.p.c., s’intende raggiungere tale obiettivo esonerando il Giudice dal gravoso onere di estendere le motivazioni della sentenza. Occorre, tuttavia, precisare che l’ordinanza de qua non ha natura cautelare non essendo ancorata al presupposto del periculum in mora.
L’ordinanza di cui si tratta potrà essere emessa sia dopo che il giudice abbia esaurito l’assunzione dei mezzi di prova, ai sensi dell’art. 188 c.p.c., sia quando ritenga, in base all’art. 187 c.p.c., che la causa sia matura per la decisione senza assumere i mezzi di prova, ovvero allorquando, entro i termini di legge, non siano state formulate deduzioni probatorie.
A tal proposito la Cassazione Civile, Sez. Lavoro, con sentenza del 12 maggio 2006 n. 11039 ha stabilito che: “L’ordinanza di cui all’art. 186 quater c.p.c. acquista efficacia di sentenza impugnabile a seguito della sopravvenuta estinzione del processo, nel corso del quale sia stata pronunciata e, in tal caso, il termine annuale d’impugnazione decorre dal perfezionamento della fattispecie estintiva, la cui configurazione può essere incidentalmente accertata, d’ufficio, in un diverso processo, in funzione di qualsiasi altro effetto extraprocessuale ad essa ricollegabile”.
In particolare ci deve  soffermare sull’ultimo comma che pur rileggendolo mille volte ci si  rende conto che è un quesito irrisolto.
L’ordinanza diviene sentenza quando  l’intimato non manifesta entro un termine perentorio la volontà che sia emessa una sentenza.
Come s’è detto, lo scopo è attuato attraverso una netta inversione dell’onere dell’iniziativa processuale: se nel regime previgente l’intimato non faceva nulla, la causa non poteva che proseguire ed andare a sentenza.
Ora, se l’intimato non fa nulla - almeno per quanto oggetto dell’istanza - la sentenza non deve essere pronunciata e la causa, quindi, non deve proseguire.
Soffermiamoci sulla differenza.                                                                                        
Nel primo caso il Giudice emette una ordinanza di pagamento o di rilascio, esistendone i presupposti perché esaurita la fase istruttoria, e la emette con una motivazione succinta, perché tale è la motivazione richiesta  dalla forma del provvedimento de quo; la naturale conseguenza è la cessazione del giudizio.
Nel secondo caso l’intimato, invece, a fronte dell’ordinanza chiede l’emissione della sentenza, quindi chiede che la causa prosegua con la fase della precisazione delle conclusioni e venga emessa una sentenza con una motivazione specifica.
Analizziamo cosa potrebbe essere più utile all’intimato:
nell’ipotesi che sia emessa un’ordinanza di rilascio di immobile a scadenza breve, chiaramente l’intimato per opporsi al rilascio avrebbe come unica strada quella di lasciar decorrere i trenta gg dalla comunicazione dell’ordinanza o dalla data di udienza in cui è stata emessa e far assumere alla stessa efficacia di sentenza per impugnarla con il gravame di secondo grado;
laddove, invece, l’intimato non avrebbe interesse ad impugnare immediatamente, ipotesi ben rara, potrebbe presentare ricorso per avere una sentenza ben motivata, e chiedere la revoca dell’ordinanza .
L’impugnazione dell’ordinanza divenuta sentenza ai sensi dell’ultimo comma deve incentrarsi sull’oggetto dell’istanza, ecco perché assume importanza la forma ed il contenuto dell’istanza stessa che deve essere preciso ed esaustivo circa il petitum e la causa petendi tale da delimitare al meglio l’ambito decisorio del magistrato.
Conviene sottolineare come al richiedente viene imposto una determinatezza e specificità di contenuti, mentre al Giudice è possibile concedere una succinta decisione in merito, a scapito sia della natura dell’ordinanza che comunque assume efficacia di sentenza che dell’intimato che in qualche modo vede leso il proprio diritto di difesa.