Quindici anni fa affrontai per la prima volta una questione
che presentava i contorni del cd “mobbing”. Sul tema iniziavano i primi
incontri, le prime sentenze, una fra tutte quella emessa dal Tribunale di Torino
che iniziò a delinearne i contorni.
Ricordo che, in tutti i convegni a cui partecipavo, i vari
relatori sia essi giuristi che psicologi si dilettavano tutti nel loro incipit,
e dico tutti, sul significato etimologico ed etologico della parola mobbing: “deriva
dall’inglese “to mob” che significa accerchiare e si trae dal mondo animale”
Sull’onda dell’esigenza alcune persone che avevano vissuto e
vivevano questa realtà lavorativa vollero creare, a Bari, un’associazione: “Asmob”- Associazione Regionale contro il mobbing; la
prima in Puglia di cui con orgoglio ne ero Presidente.
Ogni settimana, la sede era in Viale Japigia, in quel piccolo
monolocale si alternava tanta gente,
tutti con problematiche lavorative, alcune volte piccole altre volte molto
gravi.
Ricordo che, personalmente mi occupavo anche dell’ascolto e,
che la sola considerazione che ci fosse qualcuno a cui riportare quelle
esperienze lavorative negative rappresentava per quelle persone, parti passive
della storia, un momento di conforto.
Tante lacrime.
Ricordo un uomo, non potrò mai scordarlo perché rappresenta
per me una sconfitta, era stato troppo leso dalla gente, dai miei colleghi, dal
sindacato e non si fidava più di nessuno, piangeva disperato e.. aveva tentato
in più occasioni il suicidio. Volevo aiutarlo, sembrava convinto, non l’ho sentito
più!!!
Organizzammo un bel convegno a Grottaglie, ricordo che senza
appunti parlai alla platea di quello che era il mobbing veramente, che nasceva
da tutte quelle persone che avevo ascoltato, ero la loro voce sul palco, non
teoria, non tecnica, non diritto ma fatti, praticità, vita.
Dopo due anni il proliferare di associazioni in tema, libri,
convegni, nuovi esperti, tutto come sempre diventa un bussines, chiusi l’Asmob.
Ora la definizione di mobbing ha dei profili giuridici ben
delineati da normativa e giurisprudenza.
Per inquadrare una condotta nel profilo del mobbing deve
1) presentarsi in modo continuativo e protratto nel tempo;
2) concretizzarsi in comportamenti intenzionalmente ostili, reiterati e
sistematici, nonché esorbitanti od incongrui rispetto all’ordinaria gestione
del rapporto,
3) essere espressione di un disegno finalizzato alla persecuzione o
vessazione del lavoratore,
4) conseguire un effetto lesivo sulla salute psicofisica dello stesso.
È necessario inoltre dimostrare il nesso eziologico tra la condotta del
datore o del superiore gerarchico e il pregiudizio all’integrità psico-fisica
del lavoratore.
Tutti i punti devono essere provati in giudizio.
Va sottolineata l’importanza della
produzione in giudizio delle prove di tutti gli elementi costituenti la
fattispecie.
Cassazione n. 87/2012: la vicenda
lavorativa si deve sviluppare oltre i
limiti della normalità, secondo modalità incongrue rispetto alla natura delle
prestazioni, alle obbligazioni reciproche ed agli interessi delle parti
contrattuali.
E necessario ravvisare un nesso causale
fra la patologia psichica di cui risulti affetto il lavoratore ed il disagio
derivante dall’ambiente lavorative.
Bisogna essere in grado di provare le vessazioni subite ed il danno che da
queste era derivato.
Si possono analizzare le forme della condotta mobbizzante, quindi individuare
in cosa si sostanzia il comportamento ostile ed esorbitante la normalità del
rapporto, così come sono, negli anni emerse, nell’esperienza giurisprudenziale.
dequalificazione professionale del
lavoratore
il lavoratore, può essere adibito, con intento vessatorio o punitivo, a
mansioni inferiori.
Cassazione sentenza n. 3057 del 29.2.2012 si è pronunciata sul danno non
patrimoniale derivante dalla dequalificazione riconoscendo l’esistenza di un
danno non patrimoniale ad un lavoratore spostato ad un diverso ufficio, con
attribuzione di una qualifica inferiore.
condizione di forzata inattività
preordinata all’esclusione dello stesso dal contesto lavorativo.
Cassazione 18 maggio 2012, n. 7963, afferma che “il comportamento del
datore di lavoro che lascia in condizione di inattività il dipendente, oltre a
violare l'art. 2103 cod. civ., è lesivo del fondamentale diritto al lavoro, inteso
soprattutto come mezzo di estrinsecazione della personalità di ciascun
cittadino, nonché dell'immagine e della professionalità del dipendente. Tale
comportamento implica una lesione di un bene immateriale per eccellenza, qual è
la dignità professionale del lavoratore, intesa come esigenza umana di
manifestare la propria utilità e le proprie capacità nel contesto lavorativo.
Pertanto, secondo la Corte, tale lesione produce automaticamente un danno
suscettibile di risarcimento, anche attraverso una valutazione operata in via
equitativa.
comportamenti denigratori e persecutori
di vario genere,
la diffusione di notizie false sul conto del lavoratore o le quotidiane
critiche sul suo operato o, ancora, le avances a carattere sessuale di un
datore di lavoro ai danni di una dipendente.
Costituisce mobbing l'irrogazione di una serie di provvedimenti
disciplinari infondati (che non hanno, quindi, alla base infrazioni commesse
dal lavoratore), sproporzionati o manifestamente eccessivi adottati nel quadro
di una specifica volontà di precostituire una base per disporre il
licenziamento.
i comportamenti vessatori in cui si estrinseca la condotta mobbizzante
siano spesso preordinati allo scopo di portare il dipendente alle dimissioni,
ovvero, appunto, di predisporre una base per il licenziamento.
Cassazione n. 15353 del 13 settembre 2012, quel che rileva è che la Corte
pare ravvisare nella condotta mobbizzante attuata dai datori di lavoro nei
confronti del dipendente - a seguito di un infortunio - il potere di costituire
una provocazione che giustifica la reazione del lavoratore.
l’artefice della persecuzione è spesso il datore di lavoro, talvolta è
possibile che ne siano colpevoli anche i colleghi del lavoratore che si
uniscono alla strategia di isolamento e di vessazioni.
la condotta deve svilupparsi in un arco di tempo apprezzabile, in quanto
non si ravvisa mobbing risarcibile se le condotte vessatorie e persecutorie del
datore di lavoro non presentino i requisiti della frequenza costante in un arco
di tempo sufficientemente esteso, frequenza che può essere determinata in
almeno una volta alla settimana in un arco temporale di almeno sei mesi.
Cassazione 5 novembre 2012, n. 18927, anche nel caso in cui non si tratti
di conclamato mobbing il datore di lavoro è, comunque, responsabile ed
obbligato al risarcimento dei danni cagionati al lavoratore a causa delle
azioni vessatorie. Nell'ipotesi in cui, infatti, il dipendente chieda il
risarcimento del danno all’integrità psico-fisica, in conseguenza di una
pluralità di comportamenti del datore di lavoro di natura vessatoria, il
Giudice pur nella accertata insussistenza di un disegno persecutorio preciso ed
idoneo ad unificare tutti i singoli episodi (quindi della configurabilità del
mobbing), è tenuto a valutare se alcuni dei denunciati comportamenti pur non
essendo accomunati dallo stesso intento persecutorio, possano, di per sé,
essere, comunque, considerati mortificanti e vessatori per il dipendente
stesso.
l’intento persecutorio è il più complesso fra gli elementi che
caratterizzano la fattispecie, sia dal punto di vista dell’accertamento, sia
dal punto di vista degli oneri di allegazione che gravano sul dipendente.
La giurisprudenza consente il più ampio utilizzo dei mezzi di prova a
disposizione del lavoratore.